
Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di “loro”.
Questo è quanto resta di una tecnologia un tempo amica del lavoro nel romanzo postumo Dissipatio H.G. di Guido Morselli, al quale ho già dedicato un post. “Loro” sono gli uomini, scomparsi all’improvviso e senza spiegazioni. Tra i relitti spicca “nel suo stallo privilegiato, l’IBM con le spie rosse accese”. A distanza di oltre 40 anni dalla pubblicazione del libro apocalittico, il colosso americano dell’informatica non solo esiste ancora, ma continua a prosperare. A lui, il veterano con più di un secolo di storia sulle spalle, tante aziende hi-tech si sono aggiunte nel frattempo e altre più recenti hanno iniziato ad affiancarsi con alterno successo. Nell’idea che Morselli porta avanti in Dissipatio la natura riesce a sopravvivere all’estinzione del genere umano. La medesima idea sembra estendersi anche alla tecnologia, dotata come la natura di un’attitudine particolare a resistere al disastro, addirittura a funzionare senza curarsi della presenza dei bipedi parlanti.
La paura che la tecnologia ci rubi il lavoro
Sarà per questo, chissà, che la tecnologia è sempre stata vista con circospezione. Anche chi non ha mai letto Morselli, avrà comunque avvertito quell’atteggiamento fastidiosamente indifferente al nostro destino, tipico proprio del mondo tech. Un mondo che ci è servito e che ci serve, nessuno lo nega, ma come ci si serviva in passato degli schiavi, sostituiti poi da apparecchi a cui demandare i compiti più umili e ingrati. Perfino oggi, nell’era del coronavirus, durante il quale se non avessimo strumenti per collegarci a distanza il nostro isolamento coinciderebbe con una prigione, i sospetti persistono. Si fa un gran parlare dei vantaggi dello smart working, ma sotto sotto la paura che a essere più “smart” di noi siano le macchine, è dura a morire. Anzi, il timore più grande, all’indomani dell’uscita dall’emergenza, è che la tecnologia arrivi a dimostrare la nostra inutilità e che, alla fine, ci rubi il lavoro.
Un’antica inimicizia svelata dal coronavirus
Siamo luddisti del terzo millennio, ma meno coerenti dei nostri progenitori. Almeno gli epigoni di Ned Ludd, quando distruggevano le fabbriche nell’Ottocento, non avevano la fibra ultraveloce per collegarsi a Internet o lo smartphone di ultima generazione per chattare con gli amici. Vorremmo selezionare noi la tecnologia meno minacciosa, per continuare a dedicarci così alle solite cose che sappiamo fare: gli insegnanti alla lavagna, che se è LIM già è tanto, con davanti gli alunni seduti in modo disciplinato ai propri banchi; noi giornalisti a scrivere pezzi come fossimo tutti degli Indro Montanelli. E non importa se ormai la classe è un concetto che non ha bisogno delle pareti per essere tale, né che adesso esistono dei software robot che scrivono meglio di te e con meno fatica. È normale che tutto questo spaventi e che la pandemia l’abbia reso ancora più evidente, svelando l’antica inimicizia tra lavoro e tecnologia.
Perché la tecnologia non nuoce al lavoro
Eppure, dall’invenzione della ruota in avanti, la conoscenza divenuta macchinario, utensile e congegno ci ha risolto un mucchio di problemi. Chi si lamenta che si stava meglio quando si stava peggio, probabilmente non ha mai fatto mente locale su quanto le nostre vite siano migliorate con l’apporto della tecnica. Mio padre era un agricoltore e, prima di introdurre gli impianti di irrigazione automatica nelle sue campagne, doveva innaffiare manualmente ara per ara. Potrà sembrare un paragone azzardato messo a confronto, ad esempio, con i sistemi di intelligenza artificiale e il loro impatto sull’occupazione mondiale. Ma sono convinto che se oggi ci fosse ancora, e se le sue condizioni di salute lo consentissero, anche mio padre utilizzerebbe questi sistemi per produrre le sue arance in modo più efficiente e con sforzo minore. Quando i giorni della quarantena saranno un ricordo, forse anche noi capiremo che la tecnologia non nuoce al lavoro.
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