Italia, Paese bloccato anche dopo il lockdown

Ammettiamolo, l’Italia è un Paese bloccato. Anche adesso, a più di un mese da quando la quarantena è finita, restiamo ingolfati. Dove sono finite tutte le buone intenzioni? Tutte le aspettative sul fatto che saremmo usciti migliori dopo l’emergenza? Naufragate non appena il primo accenno di normalità ci ha chiesto di ritornare al lavoro e di rimboccarci le maniche. Spesso tutte le colpe si attribuiscono alla politica, rimproverandole di essere incapace di far fronte ai problemi ordinari, figurarsi a quelli di carattere straordinario. Eppure un po’ di responsabilità anche noi cittadini ce l’abbiamo, così come le imprese, le scuole, i sindacati, le categorie professionali e via via elencando. Mentre ci accaniamo nel trovare l’ennesimo capro espiatorio, l’untore dell’ultimo momento, il colpevole assoluto, abbiamo già dimenticato la fortuna sfacciata che abbiamo avuto. Perché siamo ancora vivi, a differenza dei 34.167 connazionali che non ce l’hanno fatta (dato aggiornato al 12 giugno 2020).

Una nazione lamentosa e di scarsa memoria

L’Italia è un Paese bloccato perché ha la memoria del pesce rosso. Quella che ti fa scordare che appena ieri ti eri ripromesso che d’ora in poi avresti dato priorità alle cose che contano, tra cui avere uno stipendio o una retribuzione nonostante tutto. Dopo i morti per Covid-19, dovremo fare la conta delle tante vittime del mercato del lavoro. Tra cassintegrati, inattivi e disoccupati stiamo parlando di milioni di persone. Recentemente è stato fatto un sondaggio negli Stati Uniti da cui è emerso che gli americani che non sono stati lasciati a piedi a causa del fermo da coronavirus, che ha sforbiciato qualcosa come 30 milioni di occupati, risultano più contenti e produttivi. Sembra un’ovvietà, ma invece da noi la geremiade, anche quando non avremmo nulla di cui poterci lamentare, rappresenta il marchio di fabbrica. Dovrebbero inserirla come tratto distintivo nella carta di identità. Segni particolari: piagnisteo a prescindere.

Italia, Paese bloccato perché non sa prevedere

L’Italia è un Paese bloccato perché avremmo dovuto prevedere che la riapertura delle attività avrebbe prodotto un pauroso effetto rimbalzo, intasando linee telefoniche, call center e servizi. Ad esempio, la filiale di una banca in una cittadina di circa 20 mila abitanti prima del lockdown gestiva in media 4-5 pratiche al giorno. Adesso deve gestirne 60. Non stupisce che la percezione generale sia quella di essere tornati ai tempi, mai rimpianti, in cui per parlare con un operatore del monopolista telefonico di riferimento bisognava restare in linea molto, ma molto a lungo. Adesso è cambiata la musichetta di sottofondo, ma questa attesa vale per qualsiasi cosa. Le aziende continuano a sostenere, nei loro messaggi pubblicitari, che il cliente è sempre al centro, che noi utenti non siamo mica dei numeri. Magari lo fossimo, giusto per sapere in quale parte della coda ci troviamo e fra quanto arriverà il nostro turno.

Ci può essere oggi una normalità priva di rischi?

L’Italia è un Paese bloccato perché non capisce che il ritorno alla normalità comporta dei rischi. Gli assembramenti post quarantena dei ragazzi hanno fatto gridare allo scandalo. Ma che cosa avremmo dovuto fare per costringerli ad attenersi scrupolosamente alle disposizioni di sicurezza? Mandare pattuglie per arrestarli in massa? Adottare misure di contenimento drastiche imposte dalle forze dell’ordine? Una volta sono stato nel centro di Memphis. Per entrare mi hanno perquisito alla ricerca di armi e mi hanno fatto pagare una tassa di ingresso. In linea teorica, si può fare anche sui Navigli o a Trastevere, ma non credo che appartenga alla nostra cultura giuridica. Credo, invece, che la sindrome dell’assembramento sia fisiologica. Se si permette a giovani e meno giovani di ritrovarsi, è ingiusto rimproverarli poi perché l’hanno fatto. Forse il blocco principale da rimuovere è quello di una mentalità che ci impedisce di imparare qualcosa perfino dalle crisi peggiori.


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