Fare la spesa nell’era del Covid-19

Foto di Stefania Gallotta.

Fare la spesa non è più come prima. Il Covid-19 si è impossessato di tutto. Delle nostre giornate, della nostra libertà e delle nostre abitudini, compresa quella collettiva del fine settimana quando, quasi rispondendo a un richiamo, tutti andavamo ad affollare i supermercati. Fare la spesa è diventata un’azione circospetta, l’altro è una minaccia che ci guarda da sopra una mascherina. La liturgia del weekend, con l’andirivieni svagato fra corridoi tirati a lucido e scaffali traboccanti di cibarie, adesso assomiglia a un rito funebre. Il morto non c’è, ma è come se ci fosse. Da qualche parte, tra le mura di una casa o in un ospedale, ci sta pensando il coronavirus. A nulla servono i messaggi rassicuranti delle istituzioni e delle star. La coda dei carrelli davanti alle porte automatiche dei market spazza via qualsiasi sentimento di coraggio, facendoci piombare dentro ricordi che non ci appartengono. Sullo sfondo immagini sfuocate di guerra e miseria. Ma noi che c’entriamo?

Non è un food reality, ma noi siamo i concorrenti

Vorremmo essere gli osservatori, e pure a distanza, di una foto ingiallita. Ma nella foto ci siamo noi. Siamo noi che spingiamo lentamente il carrello, in preda all’angoscia che, una volta varcata la soglia, sui ripiani sia rimasto qualcosa. Persino le penne lisce, sempre meglio di niente. E dire che fino a qualche settimana fa ci appassionavano i food reality e le competizioni gastronomiche. Ora, invece, fare provviste non ha nulla di divertente. Non è come quando in tv i contendenti corrono ad approvvigionarsi nelle dispense perfette degli studi televisivi. Fare la spesa è ormai una prigione, la stessa delle nostre pareti domestiche che non possiamo abbandonare senza incorrere in una multa o, peggio ancora, nell’ammenda risolutiva del virus. Quando, alla fine, riusciremo a entrare, scopriremo che tutto, più o meno, è uguale a come l’avevamo lasciato. Le verdure, il reparto delle carni, il pesce, lo scatolame. Nessuno tsunami di mani ce lo ha portato via. Eppure l’angoscia rimane.

Quando la spesa era quella della Boquería di Montalbán

Era bello quando ritrovavamo i nostri tic e la nostra normalità tra le pagine di Manuel Vázquez Montalbán, ad esempio quelle del romanzo L’uomo della mia vita in cui Pepe Carvalho, l’investigatore nato dalla penna dello scrittore catalano, viene descritto con la spesa appena fatta alla Boquería di Barcellona:

Anche quel mercato era diventato un cantiere e Carvalho temeva gli piovessero addosso le disinfestazioni che avevano eliminato tutti i batteri e tutti i virus della città. Si era fatto disossare delle cosce di pollo, aveva comprato delle salsicce per farcirle e cucinarle con una tecnologia d’avanguardia, una salsa con noci tritate insieme a un paesaggio di carciofi. “Le noci favoriscono il colesterolo buono e diminuiscono quello cattivo,” aveva detto davanti alle telecamere un esperto dall’aspetto gravemente malato, forse per non aver mangiato a suo tempo noci e carciofi. Carvalho sapeva tutto dei carciofi, se li fai stufati ne salvi le proprietà e i sapori e, come annunciavano i loro apologeti ai quattro venti, sono un alimento completo e poco dannoso per la gente della sua età.

Il carrello della spesa come barriera contro il virus

Le ricette di Carvalho non hanno mai convinto il commissario Montalbano, il cui nome Andrea Camilleri ha scelto proprio in onore di Montalbán. Troppo elaborata la cucina delle Ramblas per il palato del poliziotto siciliano. Ma tutto questo adesso appare un’eco lontanissima di una gioventù perduta. L’oggi coincide con l’incombenza spaurita del doversi procacciare i viveri, prima che finiscano, prima che sia troppo tardi. La prossima volta potrebbe non esserci più niente e, comunque, si vorrebbe tornare fra un mese o un anno, quando il coronavirus sarà scomparso. Si vorrebbe tornare quando fare la spesa sarà di nuovo un’esperienza travolgente, come un tempo al supermercato, alla Boquería o alla Vucciria. E anche se la memoria tende a colorire un passato che non c’è mai stato, è preferibile al presente, a questo carrello spinto quasi fosse una barriera contro il contagio. Con in tasca l’ultimo modulo per l’autocertificazione, si procede in fila, aspettando il proprio turno.


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